VITE ATTRAVERSO I BALCANI
Ogni giorno migliaia di persone si muovono lungo la cosiddetta “Rotta Balcanica”.
È un flusso continuo e lento di migranti e profughi che provengono da tanti luoghi lontani e cercano ad ogni costo di raggiungere l’Europa e chiedere asilo. Non importa quale sia il motivo per cui fuggono, tutti però cercano e sperano di ricominciare una nuova vita in altro luogo, una vita dignitosa, lontana da privazioni, da persecuzioni e guerre.
La Rotta Balcanica è per noi una realtà meno conosciuta rispetto ai viaggi dei barconi in mare nel Mediterraneo, i migranti la reputano un viaggio con minore probabilità di morte ma certamente faticoso e pericoloso in quanto i terreni sono spesso impervi, il tragitto è più lungo e vanno attraversate molte frontiere tutte presidiate e sempre più sbarrate.
Sono migliaia, sono invisibili e proprio come le acque che al passo impedito trovano sempre una via d’uscita, allo stesso modo, queste persone non si fermano; barriere, muri e fili spinati non li arrestano, al massimo possono deviare il loro percorso. Non si può fermare un fiume.
Il progetto fotografico di Samuele Formichetti si aggiunge alle innumerevoli storie di un’umanità in fuga; il suo è un reportage che ripercorre i passi di questi migranti fin dove è possibile in sicurezza; è l’incontro con alcuni di loro affinché il viaggio intrapreso diventi racconto, documentazione, testimonianza, solidarietà umana. Le immagini, in bianco e nero, sono state scattate nelle città di Bihać, Velika Kladuša e Bosanska Bojna in Bosnia ed Erzegovina nell’agosto del 2021, questi luoghi sono infatti fermate fondamentali, tappe obbligate della rotta. La narrazione si apre con l’immagine di un confine sbarrato; si nega la possibilità di accesso; chiaro è l’avvertimento, da qui non si passa!
Samuele prosegue poi con un’alternanza di prospettive mostrando persone e luoghi. Non viene cercata ed esibita alcuna sofferenza: su alcuni volti sembra aleggiare un sorriso, silente testimone dall’essere arrivati fin lì sani e salvi, dell’essere ad un passo dal raggiungere l’agognata libertà, fisica e mentale. Poi la narrazione visiva si fa più larga e le persone sono calate nei luoghi: si leggono vite sospese di intere famiglie, di giovani donne, di uomini e di tanti bambini che hanno lasciato tutto, si sono accampati in edifici abbandonati e fatiscenti ma ancor più hanno costruito accampamenti di fortuna, precari e informali, luoghi privi di tutto utili solo come tetto sulla testa, luogo dove poter cucinare i frugali pasti, dormire e riposarsi in attesa di poter proseguire il cammino. Dietro ai rifugi di fortuna vediamo case, normalità e indifferenza. Su possibili rifugi campeggiano cartelloni con la parola NO CAMP, sempre negazioni.
E mentre bimbi giocano in campi incolti, in altrettanti campi tombe senza foto né nome azzerano l’identità rendendo l’individuo solo un numero, allo stesso modo i vivi abbandonano sul cammino le tracce della loro vita, documenti e pass stracciati dove ancora sono leggibili identità, provano infatti a cancellare la loro vita e le loro identità per avere più possibilità di non essere respinti al tentativo di passaggio. “The game”, questo, è il nome dato al tentativo di attraversamento di una frontiera. A passare, i migranti, ci provano innumerevoli volte mettendo in gioco pericolosamente la loro vita fino a quando non riescono ad entrare; ma molto spesso essi vengono individuati e rimandati indietro.
Per questa gente l’Italia è la porta d’accesso verso l’Europa.
Il racconto si chiude similmente alla foto iniziale con una barriera seppur di altra natura: un campo profughi, quel luogo che dovrebbe essere un momento di accoglienza dignitosa, quel luogo che da punto di ripartenza diviene esso stesso barriera dove molti restano bloccati per lunghi mesi o anche anni in attesa di ottenere il riconoscimento di rifugiati.
La “voce” di Samuele si aggiunge ai tanti altri cori di sensibilizzazione affinché vi possa essere una speranza per il futuro.
Sono migliaia, sono invisibili e sono persone prima che migranti.