SILENCIO… ES ARGENTINA
MOSTRA FOTOGRAFICA
di Giancarlo Torresani di Trieste
Recensione di Pippo Pappalardo
“Dov’è silenzio dove, silenzio dove, silenzio dove” (da “Bandolero” di R. Vecchioni).
C’è un’esperienza fondamentale che Giancarlo Torresani vuol farci comprendere e che, qui, provo a riassumere: il silenzio è condizione necessaria e preliminare per ascoltare; l’ascolto, a sua volta, è il comportamento privilegiato per poter selezionare, nella percezione visiva, ciò che ci sta intorno.
Individuato quest’atteggiamento come il più idoneo e qualificato per esprimersi fotograficamente, ecco le città, i villaggi e la natura dell’Argentina cedere all’attenzione del nostro amico che, nel frattempo, ha cominciato ad organizzare l’analisi della realtà contemperando l’esigenza di mettere ordine tra informazioni geografiche e notizie storiche, e necessità di verificare, stavolta col proprio sentimento, l’offerta di una testimonianza sincera quanto appassionata.
Ma ora, davanti alle fotografie realizzate, anche per noi comincia il viaggio. Adesso si desta la curiosità resasi disponibile alla sorpresa. Ora, infatti, si tratta di distinguere tra le emozioni e cercare di capire cosa si è visto, compreso, portato via, raccontato; e, soprattutto, perché si è fatto.
La “guida”, quindi, non ci serve più. Tutto ciò che gli altri occhi hanno raccolto, selezionato e segnalato dell’Argentina, davanti a queste immagini, perde l’estrinseco valore, poiché andiamo approfondendo quello intrinseco che, a sua volta, manifesta la propria vicinanza con quanto è stato già composto dentro l’obiettivo e con quanto si ricompone e si rivive, oggi, nella rappresentazione.
Non so se sulla mitica “ponderosa”, correndo per rios e pampas, il “Che” portasse con sé una macchina fotografica. I “Diari della motocicletta” non ce lo dicono: ci dicono invece che i luoghi comuni, con i quali siamo soliti contrassegnare l’immagine dell’Argentina, erano stati messi da parte e lo sguardo posato su questa terra e sui suoi abitanti era assai critico ed attento.
Non so neanche se l’accecata visione di Borges si rifugiasse nel paradosso e nell’ossimoro poiché uno iato, storico ed esistenziale, divideva fatalmente la sua città dal resto del paese, così come il suo benessere dall’indigenza, la sua libertà dalla dittatura. So che di queste contraddizioni il cieco letterato con acume leggeva e scriveva.
E non so d’altre cose: dell’instabilità politica come del rinascente nazionalismo, della vitalità delle matrici culturali europee come della difficile sopravvivenza di una radice amerinda. Probabilmente, l’Argentina non sfugge alle leggi della globalizzazione e, pertanto, assai impegnativo appare ogni tentativo di decifrare la complessità della sua immagine.
Occorre, allora ed in effetti, fare silenzio e dei luoghi comuni, il tango come il mate, salvare la discrezione, la vitalità e la poesia.
L’obbiettivo del nostro amico si appunta, così, non sulla città chiassosa ma su quella dolita, ferita, contrassegnata da grattacieli ricchissimi e da monumenti eccessivi eppur costellata da villas miseria, con i villeros sempre più cartoneros e con i barrios e le quadras cittadine che, giorno dopo giorno, vanno perdendo l’elegante geometria smarrendosi tra i conventillos e l’improvvisate delimitazioni delle haciendas dei villaggi. E lo stesso accade per le confiterias e le tanguieras che, rinunciando alla loro storia ed identità, diluiscono il significato della presenza dei suoni e dei colori se appena lontani dalla città. E così, a poco a poco, non più bandoneon nella memoria ma nuovamente descamisados, deseparecidos e, ultime vittime della crisi economica, i cacerolazos.
Un pappagallo, intanto, si è rifugiato sul capo di un bambino ed insieme c’invitano a guardare l’altra natura di questo paese.
Questa utile immagine di passaggio (quanto efficacissimo ritratto) ci consente di lasciarci alle spalle il lunfardo linguaggio cittadino ed ascoltare il criollo nativo.
Tra più native espressioni, contrassegnate ormai non più dalla leggenda magellana quanto – e fin troppo a mio avviso – dall’eco dell’esposizioni di Chatwin e di Sepulveda, il fotografo cerca ed imbocca un itinerario fotografico più personale che l’allontana dalla contraddittoria vicenda cittadina, dalla difficoltà esistenziale intravista nei villaggi e lo conduce dentro la sterminata Patagonia con la quale è ancora possibile confrontare – scusate la parola – la nostra esistenza.
Tra questi nuovi silenzi il fotografo contempera le dimensioni del suo paesaggio con le ragioni del suo sentimento sicché quell’analisi attenta, che gli aveva permesso un’acuta riflessione sulla vita cittadina, sui villaggi e sul lavoro di chi vi abita, alimenta adesso un’intima introspezione suscitata dalla sorpresa di nuove visioni.
Se nelle sequenze iniziali l’autore era stato provocato dalla storia e dalla cronaca, ora è sorpreso da un tempo diverso, un tempo circolare dove si lascia coinvolgere nel riconoscimento dei simboli e dei legami; e tante cose lo invitano ancora a fare silenzio tra la ridda dei sentimenti emergenti.
Tra questi, però, appare il segno musicale diverso che spezza l’incanto del silenzio introducendo l’altrui presenza ed il suo bisogno di comunione. Qualcuno, da un cartello, potrebbe invocare ancora silenzio ma ….. ricordate il pastorello andino di Bischoff? Ogni tanto riappare, come adesso, per ricordarci che il silenzio è fatto d’ascolto di qualcosa o di qualcuno.
Fin qui mi sono intrattenuto per far capire all’amico, e mio maestro, Giancarlo Torresani, in che modo abbia “compreso” il significato del suo lavoro ed il suo “rendere conto” ovvero restituire al racconto.
Mi piace approfittare della circostanza per chiarire a me stesso, ed a quanti interessati, come sia possibile fare reportage, o, meglio ancora, fotografia documentaria e, nello stesso tempo, perseguire e raggiungere un risultato assolutamente artistico.
Senza alcun bisogno di evadere o infrangere le regole dettate dalla necessità di informare e documentare, il nostro fotografo si emancipa dalle medesime e riscatta la sua produzione come riflessione “anche” artistica. Fuori dei luoghi comuni promossi dal fotogiornalismo abbiamo nel presente lavoro un forte recupero del bisogno di mettere al centro della visione non la notizia o l’evento ma la vicenda con la quale ci confrontiamo e sulla quale riflettiamo. Rispetto ad essa adeguiamo la forma della nostra rappresentazione, organizzando eventualmente la medesima nel tempo e nella selezione, mai rinunciando al valore estetico di quanto raccolto e confezionato, anzi rafforzandone proprio il quoziente estetico senza alcun discapito per il dato reale dal quale ci si è mossi. Una vecchia discussione? D’accordo. Ma se qui la riprendo è proprio perché avverto, intorno a me, una fuga in avanti nella ricerca di una specificità artistica che troppo spesso si risolve in un mero allontanamento dalla realtà (interiore ed esteriore).
Il mio amico ha viaggiato e guardato, ha veduto ed ascoltato, si è confrontato e si è messo in discussione strappando la realtà alla realtà, regalando la “sua” realtà alla realtà.
Il bisogno di accettarsi come artifex, e quindi riconoscersi nell’artisticità dei propri risultati, è scaturito dall’adozione d’individuati stilemi, di precisi accorgimenti retorici, di sperimentati richiami culturali che, a loro volta, si sono confrontati con l’intima ma risoluta esigenza di porgere il risultato del proprio lavoro non come il prodotto ultimo di una catena d’accadimenti ma come una proposta sulla quale chiedere di convenire, discutere, piangere o godere.
Evans, Franck, Friedlander ma anche Winogrand, hanno rivendicato, e da tempo, l’artisticità di questo modo di far fotografia e, prima di loro o accanto a loro. la nostra fotografia italiana ha dato ottime e convincenti indicazioni.
Allora, vi propongo ancora un viaggio, quello dentro il laboratorio formativo della fotografia di Giancarlo Torresani, alla ricerca dei suoi maestri, dei suoi modelli. Penso che troveremo tanta esperienza, molti nomi, alcuni noti altri solo da lui conosciuti e, poi, Incontreremo di certo la disponibilità discreta della sua persona (e della sua personalità).
Facciamoci coraggio (non ne occorre tanto) e chiediamogli “chi furon li maggior tui”, “cosa c’è dietro il tuo sguardo”?
Forse, come in una striscia di Mafalda, disegnata dall’argentino Quino, dopo una brevissima pausa di silenzio, ci risponderà un sorriso ed un dito rivolto proprio verso queste immagini.