TRIBE

MOSTRA FOTOGRAFICA

di Paolo Grappolini di Impruneta (FI)       

 

Recensione di Paola Binante

La memoria collettiva, la sua forma scientifica e culturale,  poggia le basi sui documenti ed i segni del passato. Analizzare una società, studiare le interazioni dei soggetti che in essa agiscono – soprattutto nell’era contemporanea – attraverso l’uso delle immagini rappresenta, non vi è dubbio,  una delle forme di linguaggio più dirette.
Nel lavoro di ricerca antropologica riscontriamo il modo in cui gli individui e le istituzioni si scambiano informazioni su di sé, sulle proprie identità, sui propri mondi, i propri valori e la propria cultura. La fotografia quale mezzo di riproduzione antropologico, sociale, e mezzo di personale espressione, espleta la funzione primordiale della memoria: fissare e preservare l’informazione. Questa capacità di fissare il dato, di catturare il momento, non è mai puro documento, ma è anche testimonianza, la testimonianza dell’unico, dell’irripetibile.
In questa ricerca altro elemento importante è il rapporto con il tempo. Un dipinto, ad esempio, contiene un rapporto proprio con il tempo, indipendentemente dal periodo di vita di ciò che vi è rappresentato. Una fotografia, al contrario, riceve quasi istantaneamente ciò che riproduce, in frazioni di secondo che spesso sfuggono all’occhio umano. Il tempo fermato in una foto è un istante isolato da ciò che è mostrato, da ciò che sta davanti all’obiettivo. E’ un tempo catturato in funzione della propria espressività.
Luoghi, volti, oggetti di un mondo distante nelle immagini di Paolo Grappolini: sono il pretesto per rappresentazioni altre, non convenzionali e drammaticamente invisibili. Tribe ci parla dell’Africa – Togo e Benin – della sua gente e della sua cultura, un viaggio nella spiritualità così lontana dalla nostra comprensione occidentale.
Nel processo creativo di Tribe assistiamo ad una sorta di fluida inconsapevolezza: la relazione col soggetto è paritaria, come un trovarsi a vicenda senza essersi cercati. Lo sguardo sensibile del fotografo coglie istanti di vita, tra la gioia e le lacrime, tra il sogno e la realtà, di uomini e donne che abitano una terra difficile, un universo lontano.
Questo lavoro da un lato propone al pubblico una visione complessiva del luogo e della sua quotidianità, dall’altro apre ad un momento di riflessione sull’umanità attraverso il sincretismo religioso. Assistiamo così a passaggi visivi tra ritratti di uomini, dove il bianco e la luce – sinonimo di purezza – si stagliano con forza contrapponendosi al nero, al buio dei riti tribali. E’ la contrapposizione tra il “Cristianesimo Celeste” e lo spiritualismo dei riti “Vudu”, in un vortice che trascina dentro sciamani e feticci, momenti di preghiera cristiani e spiriti in trance. In questo dualismo tutto si fonde, tutto scivola dalla devozione alla rappresentazione, dal sacrificio al ringraziamento, dalla luce al buio.
Ma nel reportage per  riuscire a rendere una funzione di testimonianza “aperta” occorre che il fotografo sappia misurare ciò che vede attraverso la propria concezione critica del mondo, con curiosità ed onestà.
Paolo Grappolini nel suo lavoro trova una forza espressiva che gli permette di mantenere lo stato delle cose raccontando la realtà così come si presenta, con la missione di smuovere le coscienze senza scadere nella retorica. L’autore è “dentro” la scena, imbevuto nell’avvenimento, drammatico o no, e da questa posizione privilegiata lo consuma, lo racconta, per poi farlo rivivere nella testa, nel cuore e nell’animo del suo osservatore.
Nessun luogo e nessuno stato d’animo sono uguali a loro stessi: solamente, nel tempo, può capitare che gli uni incrocino gli altri, come per inattesa rivelazione di un’affinità elettiva, è questa la grandezza di questo lavoro. Su questo Paolo Grappolini riaccende il nostro pensare; e lo fa da fotografo autentico e sottilissimo: parlando del mondo attraverso la sua sensibilità e se stesso, ma a nome di chiunque.