I GIUDEI DI SAN FRATELLO

MOSTRA FOTOGRAFICA

di Gaetano Bonanno, Giuseppe Fichera e Pietro Urso

Recensione di Pippo Pappalardo

Oggettiva isola storica e linguistica, il territorio del comune di San Fratello giace sulle pendici dei Monti Nebrodi, in provincia di Messina. L’essere, in qualche modo, un’isola, ha permesso la sopravvivenza di quei riti, usanze, cibi, suoni e tradizioni che in altri posti, ormai, son divenuti percorsi museali affidati alla Pro Loco di turno. Autentica palestra fotografica è il Venerdì Santo insieme ai protagonisti della processione del Cristo e della Madonna ovvero i noti “Giudei sanfratellani”.
Abbigliati con abiti dai toni irriverenti, camuffando grottescamente le loro sembianze, accentuando ogni forma di apparente distacco o indifferenza verso il carattere sacro del giorno, coloro che rivestono questo ruolo non fanno che distrarre e disturbare il rito pietoso della Processione la quale, nonostante il loro intervento, si snoda risoluta per le strade del paesino svolgendo la sua funzione religiosa, penitenziale e purificatrice.
L’effetto è emozionante ed inquietante: per il contrasto cromatico degli abiti e dei paramenti, per il dialettico modo di porgersi alla cittadinanza sotto il profilo emotivo e psicologico, per il deciso modo di porsi all’attenzione dei fedeli.
C’è, in quell’irriverenza e in quel loro disturbare, come una volontà sospesa che sembrerebbe richiamare le ragioni dell’intelletto e non a quelle del cuore: di questo Tizio – par di sentire – appeso su una croce e, adesso, accompagnato dal vostro pianto nella sua strada verso il sepolcro, noi vorremmo capire qualcosa di più; pertanto, ascoltate le nostre trombette piuttosto che i vostri inni di mortorio, e guardate – se ci riuscite – i nostri volti; noi siamo ancora quelli che saranno maledetti per sempre perché l’abbiamo messo in croce non avendolo riconosciuto innocente; e adesso desideriamo che la smettiate di piangere, anzi venite con noi che ancora fatichiamo senza il conforto della speranza della sua resurrezione; se lo consentite, prenderemo anche noi, in questa Via Crucis, una forma di pane, solo per sfamarci, perché della vostra comunione poco ci importa.
Un’antica storia – l’eterna storia – divenuta segno di memoria e di identità. E, accanto, un’altra storia, quella di sempre, nutrita duramente dall’assenza di fiducia che, da sempre, vuol scommettere sul presente e sull’io e mai sul domani e sull’altro.
Capite, allora, che in un contesto di poche ore, lungo i paesaggi del Val Demone, si mette in scena, ogni anno, un dramma degno della penna di Dostoevskij; e i fotografi sono presenti. Un po’ perché si tratta di domande che appartengono anche alla loro esistenza, un po’ perché in questa circostanza è dato di fotografare il nostro passato e le nostre intenzioni sul futuro, un po’ perché altri grandi fotografi, prima di loro, in questi luoghi hanno fatto miracoli.
Anche i fotografi del “Le Gru”, Gaetano Bonanno, Giuseppe Fichera e Pietro Urso, sono andati dietro all'”Omu bbonu” e alla “Bedda madri”, ma hanno ben presto capito che il ritmo della meditazione non la dettavano le loro riflessioni personali ma le note e le positure dei Giudei sempre pronti a ripetere “noi con questa storia non c’entriamo”, “noi l’abbiamo condannato e basta”, “e, peggio per Lui se non si è scelto un avvocato all’altezza”.
Costretti da tanto interpellante protagonismo, i nostri fotografi hanno rivolto dapprima i loro obiettivi sulle sgargianti quanto pacchiane divise, poi hanno raccolto l’invito a chiudere quell’eterna domanda anche perché proprio la sopravvivenza folclorica dei “giudei” rammentava loro che quella questione non è ancora risolta.
E cosi, davanti a colui che perdona proprio chi lo sta uccidendo, i nostri giudei (simbolo di un antico potere, di ogni potere) da sotto la maschera mandano un bacio, un segno di croce, forse una lacrima. E su quei piedi di legno, intrisi di sangue colorato, strofinano e mangiano anche il loro il pane quotidiano.